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“Per funzionare le istituzioni devono realizzare un bilanciamento fra il distacco dalla società (il parlamento e il governo non sono la piazza, ma le sedi della mediazione e della decisione) e il recepimento della sostanza dei problemi reali di un Paese. Un equilibrio instabile e precario, di cui non si conosce a priori la misura. Ma, scuramente, un ingrediente indispensabile della sua ricetta sono i partiti. In una democrazia sono questi lo scandaglio interno alla società, che ne leggono le difficoltà, le contraddizioni, le istanze; sono i partiti che selezionano un ceto politico capace di portare la concretezza dei bisogni dentro le forme delle istituzioni; che danno senso – cioè direzione, orientamento – all’azione politica.
O meglio, dovrebbero essere i partiti, se oggi esistessero e se fossero all’altezza del loro compito, come bene o male sono stati nei decenni della Prima repubblica”.Rifletteva così – nei giorni scorsi – il Professor Carlo Galli sulle colonne di Repubblica (C. Galli, Cosa paghiamo all’assenza dei partiti, la Repubblica, 17 gennaio 2021, p. 29).
Qualche giorno dopo, sullo stesso quotidiano, lo storico Miguel Gotor osservava che: “negli ultimi trent’anni è la terza volta che il sistema italiano ricorre a personalità esterne ai partiti per tagliare di netto dei nodi divenuti troppo ingarbugliati. In tutti e tre i casi la scelta è ricaduta su tecnocrati di altissimo profilo, con una chiara impronta di civil servant e con alle spalle autorevolissimi percorsi professionali nel mondo dell’economia, delle banche e dell’alta finanza, inevitabilmente caratterizzati da reti di relazione di tipo cosmopolita”.
(M. Gotor, Tre stagioni, un vento solo, la Repubblica, 9 febbraio 2021, p. 27)Avvenne, infatti, con l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, con l’ex rettore della Bocconi e commissario europeo Mario Monti nel 2011 e ora con l’ex governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi.
Gotor riflette sul fatto che le tre storie hanno in comune l’essere state attivate - sotto l’egida e l’impulso del Presidente della Repubblica - in un momento di ridefinizione del nesso nazionale-internazionale, in particolare il vincolo esterno con l’Europa.
Ma anche - aggiungiamo noi - in un momento di debolezza e di smarrimento dei partiti.
L’affidarsi a un papa straniero non è il fallimento della politica? E dare a quello straniero - ovvero a Mario Draghi - carta bianca è segno di una politica che abdica al suo ruolo?
L’apertura delle parentesi tecnocratiche alle quali abbiamo accennato ha sempre svolto una funzione di tregua servita ad accompagnare una scomposizione e una ricomposizione del quadro politico. Succederà anche questa volta?Mossi da queste riflessioni abbiamo rivolto le consuete tre domande a Jacopo Tondelli, fondatore e direttore degli Stati Generali.
Jacopo Tondelli è nato a Milano nel 1978. Laureato e dottorato in Diritto penale all’Università di Pavia. Nei primi anni duemila girovaga tra la Germania, l’Italia e Israele e lungo quelle rotte incontra il giornalismo. Inizia a scrivere per il Riformista, a inizio 2008 passa alla redazione economica del Corriere della Sera dove resta per quasi tre anni, durante i quali scrive anche due libri, uno su Israele e l’altro sulla Sinistra italiana. A fine 2010 fonda e inizia a dirigere Linkiesta.it. Nel 2012 ha vinto il premio giornalistico Premiolino per la sezione web. Si dimette a inizio 2013. È co-fondatore e direttore de Gli Stati Generali. Nel 2020, proprio all’inizio del lock-down, “arriva” nelle librerie il suo primo romanzo, I giorni sbagliati, pubblicato da Laurana Editore.
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