Indice degli argomenti

  • Introduzione

  • Un'arte antica per l'oggi

    “Retorica suona male. Chi ama parlare difficile dirà: il vocabolo ha assunto connotazioni negative. Il motivo è evidente: troppi ne hanno abusato. Politici e dittatori, seduttori e venditori, ipocriti e bugiardi. Ma la retorica è la vittima innocente: dobbiamo difenderla, non accanirci contro di lei. La retorica è l’arte di parlare efficacemente, e di persuadere con le parole. Persuadere non significa ingannare. Vuol dire convincere”.

    Scriveva così Beppe Severgnini un paio d’anni fa. (L’importanza di essere retorici, La Lettura, 28.07.2019).
    Per difendere la retorica, o meglio per spiegare per bene cos’è e dove nasce, è scesa in campo Laura Pepe, col suo recente libro intitolato La voce delle sirene. I Greci e l’arte della persuasione (Editori Laterza).

    Laura Pepe, che insegna Diritto greco antico in Statale, suggerisce di partire dal termine greco peithó, persuasione, la parola che insieme seduce e convince. Anzi dal nome proprio, Peithó col quale si indica una delle divinità che compone il corteggio di Afrodite. Questo significa che Peithó, nella sua forma originaria, è strettamente legata alla dea della bellezza e dell’eros: è seduzione, ovvero quella forma di persuasione che si attua con una parola che ammalia e che incanta. Non stupisce allora che, considerata in questa prospettiva, Peithó si accompagni innanzitutto alle donne, e sia prerogativa esclusivamente femminile. Perché solo le donne sono in grado di sedurre: gli uomini no, della seduzione sono semmai vittime. Qualche esempio? Pensiamo a Ulisse, vinto dalla voce ammaliatrice delle Sirene, di Calipso, di Circe; o ancora a Paride, che venne stregato da Elena.
    Divenuto termine astratto, peithó si arricchisce di un’ulteriore sfumatura e slitta verso l’area semantica della persuasione, che, in quanto tale – e in quanto parente stretta della seduzione – è contrapposta alla forza e alla violenza. E proprio questa persuasione è da subito, sin dai tempi più remoti della storia greca, lo strumento principale a cui gli esseri umani ricorrono per ottenere l’ascolto dei loro simili.
    Ma come tutti gli strumenti anche la peithó è un’arma a doppio taglio. Si può infatti persuadere del vero, o convincere a fare una cosa giusta, ma la parola può anche raccontare il falso, ingannare, illudere.

    Tornando ai giorni nostri. Nelle scuole americane la retorica viene insegnata. La chiamano presentation literacy. A turno un bambino deve parlare a nome di tutti gli altri: più che un capoclasse, un portavoce. A Eton - la scuola che ha sfornato venti primi ministri - retorica, poesia, teatro e public speaking sono materie di insegnamento, giudicate fondamentali per il successo nella vita.
    È sorprendente che questa competenza in Italia non venga insegnata. Non a scuola, quasi mai agli adulti. Eppure, parlare in pubblico non è semplice e quasi mai spontaneo. Mette in gioco meccanismi psicologici, sentimenti complessi ed elementi del nostro carattere. Esiste un’attitudine, come in ogni cosa. I talenti naturali sono pochi, tutti gli altri possono imparare.
    E i Greci, ancora una volta, si rivelano i nostri migliori maestri. Tra storia, mito, poemi e filosofia hanno dato forma al nostro modo di pensare e di confrontarci con il mondo.


    Laura Pepe insegna Diritto greco antico all’Università degli Studi di Milano.
    Oltre a libri e saggi accademici su diritto penale e diritto di famiglia nell’antichità, ha scritto diversi manuali di storia antica e grammatica latina per la scuola secondaria superiore. Ha pubblicato Atene a processo. Il diritto ateniese attraverso le orazioni giudiziarie (Zanichelli 2019) e ha curato per il Corriere della Sera la collana in 35 volumi Vita degli antichi (2020).
    Collabora come divulgatore scientifico con il canale televisivo Focus. Per Laterza è autrice di Gli eroi bevono vino. Il mondo antico in un bicchiere (2018).


  • Partiti? Assenti.

    “Per funzionare le istituzioni devono realizzare un bilanciamento fra il distacco dalla società (il parlamento e il governo non sono la piazza, ma le sedi della mediazione e della decisione) e il recepimento della sostanza dei problemi reali di un Paese. Un equilibrio instabile e precario, di cui non si conosce a priori la misura. Ma, scuramente, un ingrediente indispensabile della sua ricetta sono i partiti. In una democrazia sono questi lo scandaglio interno alla società, che ne leggono le difficoltà, le contraddizioni, le istanze; sono i partiti che selezionano un ceto politico capace di portare la concretezza dei bisogni dentro le forme delle istituzioni; che danno senso – cioè direzione, orientamento – all’azione politica.
    O meglio, dovrebbero essere i partiti, se oggi esistessero e se fossero all’altezza del loro compito, come bene o male sono stati nei decenni della Prima repubblica”.

     Rifletteva così – nei giorni scorsi – il Professor Carlo Galli sulle colonne di Repubblica (C. Galli, Cosa paghiamo all’assenza dei partiti, la Repubblica, 17 gennaio 2021, p. 29).

    Qualche giorno dopo, sullo stesso quotidiano, lo storico Miguel Gotor osservava che: “negli ultimi trent’anni è la terza volta che il sistema italiano ricorre a personalità esterne ai partiti per tagliare di netto dei nodi divenuti troppo ingarbugliati. In tutti e tre i casi la scelta è ricaduta su tecnocrati di altissimo profilo, con una chiara impronta di civil servant e con alle spalle autorevolissimi percorsi professionali nel mondo dell’economia, delle banche e dell’alta finanza, inevitabilmente caratterizzati da reti di relazione di tipo cosmopolita”.
    (M. Gotor, Tre stagioni, un vento solo, la Repubblica, 9 febbraio 2021, p. 27)

    Avvenne, infatti, con l’ex governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, con l’ex rettore della Bocconi e commissario europeo Mario Monti nel 2011 e ora con l’ex governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi.
    Gotor riflette sul fatto che le tre storie hanno in comune l’essere state attivate - sotto l’egida e l’impulso del Presidente della Repubblica - in un momento di ridefinizione del nesso nazionale-internazionale, in particolare il vincolo esterno con l’Europa.
    Ma anche - aggiungiamo noi - in un momento di debolezza e di smarrimento dei partiti.
    L’affidarsi a un papa straniero non è il fallimento della politica? E dare a quello straniero - ovvero a Mario Draghi - carta bianca è segno di una politica che abdica al suo ruolo?
    L’apertura delle parentesi tecnocratiche alle quali abbiamo accennato ha sempre svolto una funzione di tregua servita ad accompagnare una scomposizione e una ricomposizione del quadro politico. Succederà anche questa volta?

     Mossi da queste riflessioni abbiamo rivolto le consuete tre domande a Jacopo Tondelli, fondatore e direttore degli Stati Generali.

     Jacopo Tondelli è nato a Milano nel 1978. Laureato e dottorato in Diritto penale all’Università di Pavia. Nei primi anni duemila girovaga tra la Germania, l’Italia e Israele e lungo quelle rotte incontra il giornalismo. Inizia a scrivere per il Riformista, a inizio 2008 passa alla redazione economica del Corriere della Sera dove resta per quasi tre anni, durante i quali scrive anche due libri, uno su Israele e l’altro sulla Sinistra italiana. A fine 2010 fonda e inizia a dirigere Linkiesta.it. Nel 2012 ha vinto il premio giornalistico Premiolino per la sezione web. Si dimette a inizio 2013. È co-fondatore e direttore de Gli Stati Generali. Nel 2020, proprio all’inizio del lock-down, “arriva” nelle librerie il suo primo romanzo, I giorni sbagliati, pubblicato da Laurana Editore.

  • Tra identità e movimento

    Percorrendo le nostre città capita di imboccare strade che hanno il nome di alcune date: XX settembre e XI febbraio, ad esempio.
    Entrambe si riferiscono a episodi che hanno segnato il rapporto tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
    Il venti settembre 1870 i bersaglieri entrarono in Roma attraverso Porta Pia ponendo fine allo Stato pontificio.
    Il passaggio dei soldati italiani aprì uno squarcio politico e diplomatico che si ricompose solo 59 anni dopo. L’11 febbraio 1929 lo Stato italiano e la Chiesa cattolica stipularono i Patti lateranensi. A seguito di essi, la Chiesa cattolica riconobbe l’esistenza di uno Stato italiano ed accantonò definitivamente ogni pretesa giuridica sul territorio di Roma. I Patti lateranensi si componevano di un Trattato, con il quale si definivano i reciproci rapporti sul piano del diritto internazionale tra lo Stato italiano e la Santa Sede, e di un Concordato, riguardante la disciplina dei rapporti tra lo Stato e la confessione cattolica.
    I Patti lateranensi vennero accolti nella Costituzione all’articolo 7 che regola i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.
    La sostanziale incompatibilità di numerose disposizioni dei Patti lateranensi con i principi fondamentali della Costituzione repubblicana comportò la necessità di una loro revisione e l’avvio di una lunga trattativa con la Santa Sede, sfociata nella stipulazione degli Accordi di Villa Madama, firmati il 18 febbraio 1984. Il nuovo Accordo, mentre abolisce una serie di privilegi della Chiesa cattolica incompatibili con uno Stato laico e pluralista (ad esempio, non viene più riprodotta la previsione della religione cattolica come «sola religione dello Stato»), ne garantisce, nello stesso tempo, gli spazi di libertà (ad esempio, in ambito scolastico).
    Una settimana dopo il Governo concluse un accordo anche con i Valdesi e i Metodisti, il primo nella storia italiana con una confessione non cattolica.

    Ricorrendo in questi giorni il novantaduesimo anniversario dei Patti lateranensi e il trentasettesimo anniversario degli Accordi di Villa Madama, abbiamo rivolto tre domande al Professor Marco Ventura che a questi temi ha dedicato il volume Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi).
    In particolare, ci siamo voluti soffermare sui processi sociali che via via nel tempo hanno ridisegnato i rapporti tra gli italiani e la Chiesa e che hanno segnato il percorso di revisione dei Patti lateranensi.

    Scrive Marco Ventura: “Il credo della maggioranza nel 1984 non era identità ma movimento. Perché il cattolicesimo era ancora forte dell’entusiasmo conciliare, perché cambiamento e modernità facevano meno paura, perché la diversità prometteva futuro”.
    Gli Accordi del 1984 riconobbero la libera competizione delle idee e il pluralismo sociale. Scegliere il proprio destino di individui e di popolo, senza ipoteche. Questa era la svolta che sancivano: scegliere la propria fede, scegliere un’Italia plurale, aperta. Quella promessa è stata mantenuta?

    Marco Ventura è ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Siena. Ha trascorso periodi d’insegnamento e di ricerca in molte Università straniere. Dal 2012 al 2015 è stato professore presso la Facoltà di Diritto canonico dell’Università cattolica di Lovanio dove ha diretto il Master in Society, Law and Religion. Dal 2013 al 2015 è stato in Vietnam come esperto nel dialogo strategico tra Unione europea e governo vietnamita.
    È ricercatore associato del centro Droit, Religion, Entreprise et Societé (DRES) dell’Università di Strasburgo e del CNR francese (CNRS). È membro dell’European Consortium for Church and State Research. È membro di vari comitati scientifici e editoriali, tra cui l’Editorial Board dell’Ecclesiastical Law Journal (Cambridge University Press).
    I suoi interessi di ricerca includono il Diritto ecclesiastico e il Diritto canonico, le relazioni tra Stati, chiese e gruppi religiosi, il diritto delle religioni, la libertà religiosa e la laicità, il diritto comparato delle religioni, la bioetica e il biodiritto.

    Il Professor Ventura collabora con il Corriere della Sera.


  • Hanno fatto bene? Ma non va bene!

    Il presidente uscente, ma pur sempre il presidente della democrazia che ha posto la libertà di espressione al posto d’onore della Costituzione del 1789; il presidente degli Stati Uniti d’America è stato bannato, gli è stata tolta la parola a tempo indeterminato nelle piazze digitali globali dove tre miliardi di persone dialogano e si informano.

    Smarrimento che diventa sgomento se pensiamo che la decisione di espulsione non è stata presa da qualche organismo democratico, da un’autorità di garanzia: è stata presa dai rispettivi amministratori delegati di Facebook e Twitter. Pollice verso: cacciatelo. Due privati cittadini che decidono chi ha diritto di parola e chi no. E se il rimedio si rivelasse peggiore del male?

    Occorre precisare che l’espulsione di Trump è avvenuta l’8 gennaio, a ridosso dell’assalto a Capitol Hill ed è stata presentata come una misura di ordine pubblico.

    Questo episodio ha acceso un vivace dibattito al quale non si sono sottratti filosofi, giuristi, politici, giornalisti ed esperti della Rete.

    A Giulio Enea Vigevani, docente di Diritto costituzionale e di Diritto dell’informazione, abbiamo rivolto tre domande. Tra l’altro il Professor Vigevani nei giorni scorsi è stato tra i promotori di un importante convegno, La libertà di espressione del domani, dedicato al ruolo dei social e al diritto di parola. Perché la vicenda Trump ha delle ricadute ben più ampie fino a toccare ciascuno di noi e i nostri diritti più sensibili.

  • Il giorno dopo il Giorno della Memoria

    Secondo Abraham Yehoshua troppa memoria può essere, talvolta, una trappola.
    Sostiene David Grossman che è necessario ricordare il futuro oltre che il passato.
    Ha scritto Jonathan Safran Foer che tutti gli uomini hanno cinque sensi, me gli ebrei ne hanno sei. Quello in più è la memoria.

    In occasione del Giorno della Memoria, istituito vent’anni fa, abbiamo chiesto a Miriam Camerini, saggista, regista e attrice teatrale, ebrea della nuova generazione, che cosa significa oggi ricordare la Shoah.
    Oltre ad aver risposto alle nostre domande, Miriam ha voluto continuare la sua riflessione con queste parole:

    Associare la Memoria al negativo è un’operazione rischiosa, della quale presto potremmo pentirci. Obbligarci a scriverla con la maiuscola mi pare poi prepotente: le memorie sono infinite e multiformi e hanno il diritto di esistere in ogni formato. Ricordare non può diventare un dovere, perché resterà sempre uno dei massimi piaceri dell’uomo. Questo significa forse che dobbiamo ricordare soltanto le esperienze piacevoli? Naturalmente no.
    Ricordare ciò che ricordiamo in queste giornate, in questa Giornata che diventa ogni anno più lunga fino a coprire del suo grigio l’intero mese di gennaio, è un dolore profondo e intenso che si rinnova anno dopo anno senza potersi esaurire.
    Però. Noi terza generazione, noi che abbiamo fatto un milione di incubi ambientati in campi di concentramento, noi che ovunque ci incontriamo nel mondo a un certo punto ci domandiamo: “dove si sono nascosti i tuoi nonni durante la guerra?”, noi per cui treni e rotaie vogliono sempre prima di tutto dire quello, noi che non ricordiamo una cena di Pesach senza qualche nonno o prozia che con una frase riporti l’intera tavolata indietro alle notti e agli inverni più abietti che l’umanità abbia conosciuto, forse iniziamo a chiederci che cosa fare con tutto questo, che cosa significa per noi oggi.
    Proprio come nella narrazione dell’uscita dall’Egitto a ognuno di noi posteri è chiesto di vedere se stesso proprio come se lui e non i suoi antenati fosse stato liberato dopo lunga schiavitù, così succede a noi che, anno dopo anno, per quanto cerchiamo di evitarlo, ci ritroviamo a raccontare e ascoltare di nuovo sempre le stesse storie, e ad ascoltarle ogni volta come se fosse la prima.
    Cosa ci resta allora da fare, in che modo andremo avanti? Alla fine del libro di Bereshit, la Genesi, si parla di come Giuseppe/Yosef è capace di volgere in bene il male che i fratelli hanno compiuto contro di lui salvando dalla carestia l’Egitto e poi tutta la sua famiglia. Non se ne stupisce, lo trova naturale e lo spiega ai fratelli. Forse altrettanto potremmo fare noi, che apparteniamo a un’umanità che si è evoluta, che ha saputo in buona parte fare i conti con i propri errori. Potremmo iniziare a domandarci chi soffre oggi e dove, ad occuparcene.
    Il libro di Shemot, l’Esodo, si apre con la venuta di un nuovo faraone “che non aveva conosciuto Yosef”. I maestri ci spiegano che era impossibile che non l’avesse conosciuto, tanto era noto e importante, piuttosto non ha voluto riconoscere gli enormi meriti che Yosef aveva verso l’Egitto. Ha voluto dimenticare per comodità o malvagità. Così, se gli italiani, i tedeschi e tanti altri avessero voluto ricordare il bene che gli ebrei avevano fatto ai loro Paesi nascenti, forse la Storia si sarebbe svolta diversamente. Insegnare la memoria del bene: questo potrebbe essere il nostro compito, e forse così smetteremo di essere “terza generazione” della Shoah, per diventare prima generazione di noi stessi.

    Miriam Camerini


    IL GIORNO DELLA MEMORIA

    Nato dall’esigenza di far riflettere le società europee, il Giorno della Memoria fu istituito in Italia con una legge approvata dal Parlamento nel 2000 (Legge 20 luglio 2000 n. 211), cinque anni prima che l’Assemblea delle Nazioni Unite stabilisse per il 27 gennaio una giornata di commemorazione per le vittime della Shoah. La scelta della data cadde sulla ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau da parte delle truppe dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio 1945.
    Tuttavia, il 27 gennaio non sarebbe entrato nel calendario civile di tutti i Paesi. Infatti, ogni Paese, a sua discrezione, avrebbe collegato ad una data d’importanza nazionale la propria memoria del genocidio. L’Italia preferì il 27 gennaio, scartando altre date come, ad esempio, il 16 ottobre, giorno del rastrellamento del ghetto di Roma.


    MIRIAM CAMERINI

    Nata a Gerusalemme nel 1983 e cresciuta a Milano, Miriam Camerini si è laureata in Lettere moderne alla Statale. Ha studiato Bibbia e Letteratura rabbinica presso l’Istituto Pardes di Gerusalemme. All’Università ebraica della stessa città ha frequentato un master in studi teatrali. Attualmente è iscritta all’Istituto Har’el di Gerusalemme, uno tra i primi a conferire l’ordinazione rabbinica alle donne nel mondo ebraico ortodosso. È saggista, regista e attrice teatrale.


    PER APPROFONDIRE

    • David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, Torino, Einaudi, 2009.
    • Raffaele Mantegazza, Nessuna notte è infinita, Riflessioni e strategie per educare dopo Aushwitz, Milano, Franco Angeli, 2013.
    • Walter Barberis, Storia senza perdono, Torino, Einaudi, 2019.
    • Valentina Pisanty, I guardiani della memoria, Milano, Bompiani, 2020
    • Adriano Prosperi, Un tempo senza storia, Torino, Einaudi, 2021
    • la Lettura, #478, Domenica 24 gennaio 2021

  • USA, una nazione da ricostruire

    Mercoledì 20 gennaio Joe Biden e Kamala Harris si insediano alla Casa Bianca. 

    Ci arrivano dopo una chiara vittoria elettorale, contestata fino all’ultimo dal presidente uscente Trump in un crescendo di polemiche, ricorsi e dichiarazioni infuocate, fino all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio e la successiva ratifica del Congresso della vittoria dei democratici.

    In molti si interrogano sull’eredità che lascia Donald Trump e su quali obiettivi il nuovo presidente proverà a ricostruire un clima di concordia nazionale. In un mondo ancora alle prese con la pandemia e le competizioni tra Stati, si cerca anche di capire che ruolo avranno gli Stati Uniti di Biden sul piano internazionale.

    Attraverso le Pillole di Weekly News di questa settimana vogliamo conoscere meglio il profilo dei tre protagonisti: Trump, definito dal giornalista del New Yorker Mark Singer “una vita mai molestata dal brontolare dell’anima”. Biden, il più anziano presidente della storia degli Stati Uniti, apparentemente poco carismatico, e Kamala Harris, la prima donna, la prima persona nera, la prima indiana-americana vicepresidente.

    Risponde alle nostre domande Francesco Costa, vicedirettore del Post, autore di Da Costa a CostaIn questi giorni, per Mondadori, esce il suo libro Una storia americana. Joe Biden, Kamala Harris e una nazione da ricostruire, nel quale traccia un ritratto della nuova presidenza percorrendo le straordinarie biografie dei due protagonisti e i momenti che hanno segnato le loro vite, perché - sottolinea Francesco - la politica e il potere non cambiano le persone: le rivelano per quello che sono.
    Lo scorso anno, sempre per Mondadori, Francesco Costa, ha pubblicato Questa è l’America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro, scritto per colmare il divario tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo dell’America.

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